In capo al mondo. In viaggio con Walter Bonatti

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Lo spettacolo di Luca Radaelli per TeatroInvito. Alla ricerca della Giustezza. Fino in capo al mondo.

L'incontro con Walter Bonatti nella messa in scena di Luca Radaelli per TeatroInvito è innanzitutto l'incontro con un pensiero a tutto tondo che, com'era nel tempo classico dell'occidente e come è in molto pensiero orientale, non presuppone la scissione mente/corpo. Bonatti cerca l'armonia. La cerca scrivendo, fotografando, esplorando il mondo nei suoi luoghi remoti, sia che si trovino in verticale sulle montagne o in deserti remoti, nel confronto con le difficoltà imposte dal freddo, dall'altezza, dagli incontri con animali selvaggi, dalla solitudine e dalla carenza d'acqua. È una ricerca interiore. È una ricerca di silenzio. È una ricerca di misura di sé e capacità di misurarsi con i propri limiti. Come in matematica si studiano le funzioni e come in matematica è una ricerca di equilibrio. Come equilibrate, lineari, pulite sono le vie alpinistiche aperte da Bonatti. Eroico lo definisce Radaelli. Di quell'eroismo che porta l'uomo ad essere se stesso fino in fondo. La cui vita è virtuosa, e perciò felice, degna di essere vissuta. Superando tanto la mediocrità quanto un desiderio tutto esteriore di successo, di piacere. Questo è il cammino per una Giustezza che è davvero eroica e ha molto da raccontare ad ognuno di noi anche se non abbiamo mai pensato e non penseremo mai di aver a che fare con piccozze, corde, deserti e montagne. Nel nostro quotidiano, di fronte alle nostre scelte, impegni, relazioni. Un'etica della responsabilità che Bonatti sviluppa anche nella durezza della famosa scalata al K2 che lo spettacolo fa rivivere in tutta la sua straordinaria potenza, fino a sentire il freddo nelle ossa e la meraviglia dell'aurora che può vivere solo un sopravvissuto a una notte all'addiaccio a quasi ottomila metri d'altezza, un ricongiungimento totale con la grandezza del mondo, la sua armonia, la sua totalità, la nostra piccolezza. Ed è proprio l'immensa piccolezza dell'umano che si manifesta persino in quella condizione estrema tra ansia di successo, bisogno di affermazione, invidia, ipocrisia a costringerlo a confrontarsi anche con l'emergente sistema dell'informazione di massa. Tanto che ancora oggi molti lo ricordano come quello che aveva rubato le bombole. Una notizia infondata e divulgata con superficialità che sopravvive per decenni ad ogni verifica e ad ogni sentenza successiva. In quel momento Bonatti capisce che l'unica strada percorribile è prima di tutto interiore, in una relazione con se stesso che è relazione con il modo.
Radaelli è un interprete essenziale, ha trovato molto di sé in questo incontro, lo incarna, lo carica sulle proprie spalle, come un allievo che ha fatto interamente proprio il maestro. Non ne fa un ritratto scontato. Ha trovato un suo Bonatti, ha aperto una sua via. Tra arte e avventura c'è una relazione autentica, una ricerca intensa dell'umano. Così ci restituisce un grande incontro, possente come una montagna, travolgente come una bufera, dolce come un alba in vetta. E un'occasione per riflettere e guardare dentro di noi. E ci restituisce un pensiero su valori forse inattuali: il coraggio, lo spirito di sacrificio, la volontà di riuscire ad ogni costo: solo chi ha coraggio, può essere davvero libero. Ma in fondo il coraggio è la scelta quotidiana tra la giustezza e l’opportunismo, tra senso ed esteriorità, tra adeguarsi o essere se stessi. Una scelta quanto mai attuale.

Vorrei, la rivista che vorrei, 6 gennaio 2015

http://www.vorrei.org/culture/10448-in-capo-al-mondo-in-viaggio-con-walter-bonatti.html

The walking dead

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In The walking dead, ponendo al centro la morte, e il confine che questa rappresenta per definire l'umano, gli autori provino ad indagare a fondo la nostra stessa idea di umanità, di relazioni, di pietà, di etica in un contesto estremo non così dissimile da quelli sperimentati, ad esempio, in scenari di guerra.

Nelle ultime settimane in qualche nottata del sabato e della domenica mi è capitato di vedere qualche puntata della serie tv The walking dead, che registra altissimi indici di ascolto.

Sono convinto, da tempo, che le serie tv rappresentino una significativa espressione artistica in cui alberga tanta parte della produzione e cinematografica e letteraria attuale più innovativa, esattamente come accadde per la nascita del romanzo ed il racconto d'appendice, pubblicati inizialmente a puntate sulla stampa, anche per questo nella legge Valore Cultura abbiamo esteso le facilitazioni fiscali a questa forma di cinema.

E’ interessante come, in The walking dead, ponendo al centro la morte, e il confine che questa rappresenta per definire l'umano, gli autori provino ad indagare a fondo la nostra stessa idea di umanità, di relazioni, di pietà, di etica in un contesto estremo non così dissimile da quelli sperimentati, ad esempio, in scenari di guerra.

Ambientata in un mondo post Apocalisse, in cui un virus ha trasformato gli esseri umani in zombie, la comunità superstite (e apparentemente non contaminata) si chiude in un carcere che da luogo di detenzione diventa luogo di protezione, inversione ideale rispetto al senso comune.

Ed è interessante che il protagonista, risvegliandosi dal coma, e dunque avendo egli stesso sperimentato una condizione di pre morte, si ritrovi in un mondo che vede prevalere per numero i "vaganti", i morti viventi, mentre uno sparuto gruppo di sopravvissuti combatte ogni giorno non solo per la propria sopravvivenza ma anche per non perdere la propria umanità.

Da questa situazione di estrema precarietà derivano le regole di ammissione alla comunità stessa: quanti vaganti hai ucciso, quanti viventi e perché. Come a chiedersi quale sia il confine, quale sia il livello di umanità minima per poter entrare nel gruppo che deve difendere e far sopravvivere la nostra specie, quali tratti essenziali deve avere la stessa qualità di umanità.

E del resto è proprio la progressiva accettazione di quei corpi animati che si hanno davanti, guidati solo dall'istinto primordiale del cibarsi, eppure magari amici o parenti, umani come noi anche solo fino a picchi minuti prima, il loro riconoscimento come non umani il tema ricorrente che pone sotto la lente la nostra stessa umanità andandone a cercare le caratteristiche fondanti.

Come tanta filosofia del novecento ha sostenuto, la morte è centrale per la comprensione della vita. La caratteristica dell'umano è il suo essere per la morte. E dall'accettazione e dalla (difficile) comprensione di questo destino discende gran parte delle possibilità di definizione di sé e della capacità di cogliere la pienezza del proprio vivere.

In tempi di emergenza antropologica, con un consumismo che, nonostante la crisi, continua a costituire l'etica di riferimento, e l'accumulazione e la vittoria, spesso connessa alla soppressione dell'avversario, restano modelli dominanti, l'interrogativo sulla essenzialità del nostro essere è tutt'altro che scontato.

Da questo pezzo di letteratura televisiva emerge con forza una risposta comunitaria, fatta di regole minime e di un bisogno di riscoperta delle caratteristiche che definiscono l'umano dal non umano.

E se una serie tanto vista suscita almeno qualcuno di questi interrogativi, credo svolga appieno quello che, a mio modo di vedere, è il ruolo di ogni forma artistica: spalancare la porta che affaccia dentro noi stessi per trovare una risposta alla differenza che passa tra il nostro vagare nel mondo e quello dei morti che camminano.

Venerdì, 13 Dicembre 2013
Scritto da Roberto Rampi per Vorrei, la rivista che vorrei

http://www.vorrei.org/culture/8937-the-walking-dead-una-lettura-filosofica.html

La vita è bella

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Nel finale. Quando i nazisti scappano increduli, come bambini che sanno di averla combinata troppo grossa e hanno paura. Paura. In quel finale, con gli ex prigionieri, i sopravvissuti, che quasi incapaci tentano di recuperare l'esistenza, è scritto tutto il film di Benigni. Ciò che è successo è ciò che non sarebbe mai parso possibile. Neppure nelle più nefaste fantasie. Uomini usati per fare sapone e bottoni, bruciati nel forno. "Sarebbe il colmo" dice Guido-Benigni al figlio. Sarebbe il colmo. E intanto sta succedendo.

Io non appartengo più

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Roberto Rampi guida i lettori di Vorrei all'ascolto del nuovo album del cantautore milanese. In un'ora di musica e dodici round, Vecchioni ci racconta la sua battaglia vinta con il dolore, inatteso in molti sensi. Un album prezioso che appartiene ad ognuno di noi.

20131016-vecchioni-aCome nella miglior tradizione della canzone d'autore, "Io non appartengo più" è un album di concetto e, dal primo all'ultimo brano, attraverso forme e immagini diverse, ci offre una riflessione sul dato peculiare dell'umano. Una riscoperta dell'umanesimo che ha caratterizzato le poetiche di Vecchioni e che esce rafforzato dal confronto con un tempo in Vecchioni non riesce a riconoscersi. Tutt'altro che un abbandono, una fuga o una resa, quello di Roberto è un appassionato racconto da una posizione serena e vittoriosa. Il punto di vista di un saggio che, raggiunti i settant'anni, ha qualche cosa da raccontare, da insegnare; si tratta sempre di un professore, ma con la dolcezza di chi non ha la verità in tasca, vuole raccontare la propria esperienza e dire: "io l'ho capita così".

L'album è un piccolo gioiello. Bellissimo l'equilibrio tra musica e parole. Molto personale. E per questo molto politico. Non nel senso che si attribuisce prevalentemente, purtroppo, a questa parola. Politico perché pieno di visioni, di vite, di emozioni, di passioni, mette in fila tutto quanto di meravigliosamente umano ci accomuna, ciò che è davvero importante ben oltre la cronaca, le miserie, la bassezza di questo "inventario di suppellettili" che è il quotidiano. Un dolce umanesimo forse un po' fuori tempo e invece intramontabile, che dialoga con il senso ultimo, con il motore stesso del vivere, l'amore in ogni sua sfumatura. La leggerezza di calviniana memoria in un piacevolissimo viaggio denso di sapori con picchi altissimi, che ci chiede, ci propone, ci consiglia di provare a fermarci, ad assaporare, di guardare le cose con un po' più di distacco, di fermare questa corsa folle, di provare ad avere una visione un po' più lunga, di provare a riprenderci il tempo per vivere.

Il cammino inizia nell'antica Grecia, un classico per un professore di greco latino. Con "Esodo" Vecchioni ci riporta per mano con dolcezza nel momento in cui Edipo nel bosco di Colono sta per lasciare questo mondo. Lo avevamo già incontrato in "Quest'uomo" ai tempi del "Bandolero stanco", ma ora è sereno, ha attraversato un dolore indicibile, un destino avverso che l'ha portato a condizioni di sofferenza inimmaginabili però, raggiunto il termine della vita in questo bosco meraviglioso che rappresenta l'unità tra uomo e natura ritrova, in questa armonia con l'universo, la propria armonia interiore. Sa che è venuto il tempo di andarsene, ma indugia ancora un attimo pensando alle figlie Antigone e Ismene, all'umanità a cui ha appartenuto e a cui vuol ancora così tanto bene, eppure la comprensione che è tempo di guardare le cose con distacco maggiore. E qui sta una delle chiavi del disco di Vecchioni: l'uomo ha la capacità di vincere il dolore, di capirlo, di viverlo, ma di uscirne vincente. È l'essenza dell'umano comprendere di dover essere in qualche modo oltre le scaramucce del quotidiano, le "miserie mobili", "l'inventario di suppellettili" che ci circonda, perché la sostanza dell'uomo sono le parole "che non hanno confine", che non si occupano del giorno, del quotidiano, della cronaca, ma che raccontano una storia per l'eternità, il richiamo altissimo che suonerà per tutto l'album: cosa aspettiamo a partire verso un viaggio che ci accompagna alla comprensione di che cosa è davvero importante: l'amore e i sentimenti, la vicinanza con gli altri? Abbandoniamo le miserie e prendiamo coscienza del nostro orizzonte, della nostra dimensione.

"Le mie donne" potrebbe definirsi un grande classico vecchioniano, un'inno alla donna in tutta la sua essenza: le donne della vita, la madre, le figlie, la moglie, le donne della storia Simone de Beauvoir, Rosa Luxembourg, Teresa d'Ávila e le donne che combattono il giorno negli ospedali, nei campi, nella vita quotidiana una battaglia di sofferenza di fatica ma la fanno con una grande passione, con un'amore totale per la vita e insegnano agli uomini il mestiere di essere uomini, e tutto questo lo fanno a un prezzo che è impagabile: per amore. Sono il vero motore del mondo, dei legami, delle speranze.

Vecchioni reincontra Borges, un grande classico che lo ha accompagnato sin dai tempi di "Dentro gli occhi" in "Il miracolo segreto": la possibilità di avere ancora un anno di vita in cui tutto il mondo si congela per rivivere le cose, per riassaporarle, per ricordarle. Ed ecco che il tema ritorna: non farsi distrarre dalle luci della ribalta, dai rumori di fondo, dal caos che ci circonda e fermarsi a ricordare, guardare la mostra vita, dare spazio alle nostre emozioni. "Sei nel mio cuore" è una ballata d'amore facile e veloce che rimane subito nella testa, in "Sui ricordi" invece Roberto chiede di essere ricordato non per i momenti di luce, pubblici, non per la sua figura conosciuta, ma per i momenti di debolezza, per i momenti in cui è stato o debole in difficoltà.

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Una foto di qualche anno fa con l'autore dell'articolo, Roberto Rampi, e Roberto Vecchioni

Il sesto round di questo incontro, "Ho conosciuto il dolore", è una delle punte massime dell'album: un brano parlato, una poesia che riecheggia Montale in cui Vecchioni si confronta direttamente vis-a-vis con il dolore, quello vero, provato realmente sula sua pelle quando ha scoperto di avere un tumore, ha scoperto la malattia di suo figlio, quando si immedesima con il dolore del mondo, la sofferenza per la fame, per le guerre. E questo dolore prima lo combatte, lo vince, e poi va a riprenderlo per capirlo davvero. Ed ecco l'umanesimo che ritorna: io sono un uomo e le emozioni che posso vivere, anche se durano solo un attimo, valgono di più e sono molto più forti di qualunque dolore. Le emozioni, le amicizie vere che abbiamo vissuto, i figli che abbiamo cresciuto, i sogni che abbiamo amato, la vita nella sua intensità è più forte questa è l'essenza dell'umano.

In "Stelle" riecheggia "Velasquez", ma anche "I muscoli del capitano" di De Gregori, il capitano di questa nave è consapevole che sta raccontando una favola ai suoi uomini e anche un po' arrabbiato con le stelle, che non danno più risposte, che non conoscono la dimensione dell'umano. Sono le stesse stelle delle "lettere d'amore" e anche il capitano, come Pessoa, si rende conto che la ricerca di un senso non va sviluppata nella perfezione gelida e inumana, in verità astratte ed immutabili, ma nella pienezza, nella vivacità, nella forza dell'umano che deve misurarsi con la sua meravigliosa e drammatica finitezza, fallibilità, imperfezione: "qual è il senso del viaggio?" si chiede il capitano, e la risposta è che forse è il viaggio stesso, la gioia, l'attesa, l'emozione, il desiderio.

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Il viaggio del professore diventa, con "Così si va", una lezione di vita, che ricorda un brano di tantissimi anni fa di un Vecchioni giovane e scanzonato: "Come salvarsi la vita". Ora l'uomo maturo, che guarda una lunga vita dietro di sé, che è diventato nonno, vuole raccontare la sua esperienza e offrircela come una risposta possibile. Ci si innamora dell'amore e non si torna indietro, ridendo delle gioie e ricordandosi le cose belle che capitano, fermandosi ad assaporarle fino fondo, imparando a distinguere i gusti, come il vino nel palato, come quando si sorseggia un distillato, come quando si gusta il sapore di un cibo, come quando ci si ferma a guardare un quadro, quando ci si fa trasportare da una musica, un disco bello come questo. La tua vita è quella che senti, quella che hai vissuto e che nessuno ti potrà togliere.

Giunto al nono round Vecchioni ci riserva un omaggio alla poetessa polacca "Wislawa Szymborska", premio Nobel nel '96, riprendendo una sua poesia in cui riecheggiano i temi di tutto il disco e ci accompagna verso il decimo round, fortissimo e vincente, forse il più personale e il più politico insieme, il più sentito. Per la prima volta Vecchioni, che ha cantato da marito, da figlio, da fratello da padre, ha parlato delle sue figlie dei suoi figli e ha dedicato a ognuno di loro una canzone, per la prima volta canta da nonno.

Questa dolcissima ballata per le sue nipotine Nina e Cloe, "Due madri", muove dalla loro condizione un po' speciale, ma neanche troppo, di avere due madri. Vecchioni si domanda che cosa penseranno i perbenisti, che cosa potrebbero dir loro, e dice loro di riderci sopra. Due madri sono qualche cosa di bellissimo, il segno di un amore fortemente voluto, qualche cosa che, come un fiore d'inverno, ti sorprende per un momento e poi ti riempie di gioia. In fondo ci si stupisce di ciò che sembra strano, diverso, cui non siamo abituati, ma, dice Vecchioni, chi può arrogarsi il diritto di porre un confine all'amore? Lo dice con una naturalità e una dolcezza che accompagnano tutto il disco e trovano in questa canzone una perla. E proprio per questo la seconda parte della ballata è tutta all'insegna di una nuova condizione, la bellezza per il nonno Roberto di avere due nipoti; questa volta saranno loro a camminargli avanti per accompagnare il suo passo pesante e il suo cuore ancora così leggero.

"Come fai?" è un brano scritto insieme a Giuliano Sangiorgi dei Negramaro che cerca di comprendere l'incomprensibile, l'incommensurabile, l'alterità di di Dio. La sua essenza estrema è essere e non avere, essere sempre amore.

Nell'ultimo round Vecchioni ritorna come nel più classico degli album al tema dell'inizio in forma forse meno lirica e, come un bravo professore, torna sulla lezione per i ragazzi prova a spiegarla in modo più semplice, un po' più divulgativa, un po' più accessibile. Io non appartengo più, dice Vecchioni, e non è una resa, è un ammettere con serenità di essere oltre. Un uomo che viene da un tempo dell'approfondimento, il tempo della passione, il tempo della lettura, il tempo della riflessione, il tempo dell'assaporare che è profondamente diverso da questo tempo in cui tutto corre veloce, tutto è istante, in cui tutto viene consumato in fretta. Vecchioni dice no. Io a questo delirio digitale non voglio cedere, a questa democrazia totale che lui definisce demofobia dove tutti devono avere opinioni su tutto senza averne neppure il tempo, senza prendersi il tempo per fermarsi a pensare.

Se è importante dire quello che si pensa è ancor più importante pensare quello che si dice, lasciar depositare le cose, esprimere un punto di vista solo quando è maturo. Vecchioni ha ancora invece tanta voglia di dire la sua, ma con dolcezza e consegnandoci la sua riflessione, se è solo se la desideriamo, se vogliamo trovare il tempo per ascoltare un consiglio, un suggerimento. Vuol provare a dirci di non cadere in questa grande fregatura consumistica per la quale è necessario occuparsi di tutto, avere tutto, rispondere a tutto all'istante, correre sempre. Ma davvero avete un'opinione vostra o è solo il rimando di qualche cosa che vi è stato detto e che riecheggia rimbalzando e cinguettando?

Roberto Vecchioni ci dice "impegnatevi!" e sembra riecheggiare il Gramsci che diceva: "impegnatevi che abbiamo bisogno tutta la vostra forza, ma insieme studiate che abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza". Quello che è fondamentale per una vera democrazia che non ricada in una demomania populistica è il conoscere per deliberare, partecipare non schiacciando un pulsante dal divano o ripetendo concetti non propri, ma fare lo sforzo di studiare capire e quindi sapere anche scegliere di cosa occuparsi e di cosa no, su questo non ho un'opinione. Non rispondere all'intervista, alla battuta per radio, ad un'informazione che ti vuole consumare. Non mettere "mi piace", non cinguettare su tutto, ritrovare il tempo per lasciar decantare, come il vino buono che ha bisogno di riposo, come la torta che ha bisogno di lievitare, come il pensiero che ha bisogno di silenzio. In questo nuovo fortissimo slancio umanista riecheggia un antico sogno, il sogno di essere uomini insieme ad altri uomini e non una massa indistinta.

Bisogna forse andare indietro fino a "Cielo capovolto" per ritrovare un disco così equilibrato. Negli ultimi album Vecchioni ci aveva regalato perle altissime come "Shalom", "Marika", "Figlio figlio" solo per citarne alcune. Non erano però nella loro interezza così belli è così completi, senza alcuna caduta l'album è un vero balsamo per il cuore, un vero momento di pausa e riflessione, è ridotto. Un momento di ritorno a sè stessi, un disco denso di vissuto, denso di emozioni distillate, denso di quell'umanesimo che dovremmo saper riscoprire, e forse è una buona chiave per uscire dalla crisi etica, politica, culturale, morale in cui ci siamo cacciati, da soli, continuando ad accelerare, a correre fino a perderci, a lasciarci indietro.

Mercoledì, 16 Ottobre 2013
Scritto da Roberto Rampi per Vorrei, la rivista che vorrei

http://www.vorrei.org/culture/8553-io-non-appartengo-piu-di-roberto-vecchioni.html

Il Pasolini di Abel Ferrara

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Cinema. Ferrara non racconta Pasolini, prova a realizzare Pasolini, restituire Pasolini, dare vita alle sue creature mai nate e insieme alle sue parole e al suo coraggioso viaggio nell'abisso.

Il film di Abel Ferrara è difficile e controverso. Ma a mio parere è un film davvero da vedere.
Sconta una cifra troppo americana nello stile, nella recitazione, nell'immagine dell'Italia. E una lentezza che a volte rende completamente irreali proprio le scene che vorrebbero essere (forse) più veriste. Ma la scelta felice di non raccontare una biografia ma come di far vivere nella loro pienezza le ultime ore di vita di Pasolini e provare a dare forma in particolare alle due opere cui lavorava proprio in quei giorni, la presenza assoluta delle sue parole, rende a mio parere giustizia al titolo.
Pasolini è lì. Con la sua straordinaria capacità di cogliere l'essenza di una società in trasformazione che è diventata la nostra. Una società che insegna a possedere e distruggere. La società di massa e dei consumi che consuma la semplicità della vita precedente, fatta di bisogni materiali, fatiche e sofferenze, ricca di differenze che vengono piano piano livellate dalla grande autostrada linguistica, culturale e consumistica della modernità. Tutti vogliamo le stesse cose perché ci educano a volerle. E questo libera forse alcuni dei nostri istinti più beluini sdoganandoli e giustificandoli, incanalandoli, usandone la forza, per trasformali in motore del consumo, alimentandone la drammatica distruttività e l'intrinseca violenza. Ferrara non racconta Pasolini, prova a realizzare Pasolini, restituire Pasolini, dare vita alle sue creature mai nate e insieme alle sue parole e al suo coraggioso viaggio nell'abisso. Un abisso in cui trovare i coraggio di guardare.

Domenica, 28 Settembre 2014
Scritto da Roberto Rampi per Vorrei, la rivista che vorrei.

http://www.vorrei.org/recensioni/10066-il-pasolini-di-abel-ferrara.html?highlight=WyJyYW1waSJd

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