Democrazia è riconoscere le ragioni dell'altro

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Può sembrare un dettaglio ma è inquietante che, su fronti opposti, nell'ultima campagna elettorale si siano giudicati due grandi artisti non in base alla loro arte, che può piacere o meno, ma in base al fatto che abbiano preso delle posizioni più o meno condivise a sostegno del proprio o di un altro schieramento. E chi scopre che un artista non è d'accordo con lui allora inizia ad insultarlo, a dargli del venduto, a denigrare la sua arte.

È pericoloso. È il seme della violenza che inizia dalla concezione dell'altro. Dall'idea di annullare l'altro. Poi finisce che qualcun l'altro lo annulla davvero.

La Politica avrebbe bisogno di recuperare un rispetto per l'altro, il confronto.

Esistono programmi, idee, valori contrapposti. Una visione diversa, alternativa della città, del Paese.

L'idea che da una parte esistano i buoni e dall'altra i cattivi, da una parte i capaci ed dall'altra gli incapaci, da una parte gli onesti e dall'altra i delinquenti è pericolosa, violenta.

Anche per questo serve riscoprire la differenza tra destra e sinistra, che esiste, non è superata.

Chi dice che non esistono più la destra e la sinistra pensa che da un lato ci stanno i buoni dell'altra i cattivi da eliminare. Un'idea fondamentalmente fanatica, settaria, pericolosa e violenta ...

Le migrazioni, la Sinistra e il senso delle priorità

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Il tema epocale delle migrazioni non è solo una questione nazionale e una clava che le destre utilizzano per acquisire consensi con le paure, in una rincorsa che sposta sempre più l'asse su posizioni xenofobe.

Si tratta di un grande tema identitario, antropologico, sulla concezione dell'uomo, dello Stato, del mondo. Si tratta del cuore pulsante di quello che può essere tanto un nuovo internazionalismo quanto invece una rinascita nazionalista della peggiore specie.

Le grandi narrazioni hanno, negli ultimi due secoli, condizionato gli eventi e invece che subire i processi storici hanno contribuito a determinarli. È quello di cui l'Europa ha bisogno come il pane.

Oggi la sfida è tra chi ritiene di poter governare il cambiamento, gestire le complessità, affrontare la sfida della velocità e della vastità che il mondo contemporaneo impone e di conseguenza guardare in faccia le paure, accoglierle, capirle e lenirle, affrontare e risolverle, e chi invece ritiene di interpretare questa fase in chiave difensiva, alzando i muri della fortezza, costruendo bunker e casematte, indicando nemici da colpire, alimentando l'odio. 

Il rischio che abbiamo corso in Austria, ma anche il fatto che il respiro di sollievo che tutti abbiamo tirato vede comunque la sinistra fuori dai giochi, sono un segnale di allarme chiaro di quanto prioritario debba essere per noi questo tema.

La guerra mondiale a pezzetti è un miscuglio di ingiustizie secolari, aspettative frustrate, violenze, odi, fanatismi seminati nelle diverse periferie del mondo, tanto quelle delle metropoli che quelle delle cartine geografiche, dei continenti. Un mondo diviso in cui migliaia di persone osservano inermi attraverso i canali satellitari pubblicità di cibi gourmet per cani e gatti mentre i loro bambini muoiono di fame.

La sinistra, europea, mondiale, deve affrontare questa sfida. Niente di meno.

La sinistra italiana può, se vuole e se ne è all'altezza, giocare un ruolo cruciale per diverse ragioni.Il tema delle migrazioni, della cittadinanza, di un piano di sviluppo per i paesi del continente africano, una logica di intervento nelle aree di conflitto non basata sulla forza delle armi ma sulla diplomazia e sulla forza della ragione. Questi sono tutti elementi identitari che segnano nettamente il passo culturale, politico, nel governo del nostro Paese.

Siamo al governo del Paese e pur senza un consenso sufficientemente maggioritario per realizzare un governo solo del PD siamo stati e siamo la forza largamente trainante della maggioranza di governo e di gran lunga la prima in tutti gli appuntamenti elettorali. Questo fatto in Europa è una rarità.

Superare la mitologia dell'austerità e aprire l'epoca della flessibilità, per un'Europa degli investimenti, tanto in infrastrutture  materiali e tecnologiche quanto su scuola, istruzione, ricerca e cultura rappresenta uno snodo della politica europea cui il governo italiano ha dato un contributo determinante.

La sfida culturale, la cultura come piattaforma di integrazione, di comprensione, di educazione alla complessità, di diffusione di conoscenze e competenze essenziali per saper affrontare le paure è il grande progetto politico che possiamo offrire ai nostri figli e nipoti.

Siamo al centro del mediterraneo, possiamo esserlo come banchina, ancora di attracco, scialuppa di salvataggio di migliaia di disperati o possiamo svolgere il ruolo di registi e interpreti, di ponte tra le culture, di cerniera tra l'Europa dell'oggi, a nord del mare interno, e l'Europa dell'altra sponda, quella parte di africa e di vicino oriente che è culturalmente, politicamente, storicamente parte dell'Europa.

La sinistra italiana deve scegliere se essere protagonista di questa sfida, o se impegnare le proprie energie in una polemica contingente e in uno sguardo rivolto al passato, se lasciare in questa fase il proprio nome, la propria firma, i propri volti stampati nelle pagine di una sfida storica o in quelle di cronaca dei retroscena politici del giorno dopo.

Popolari o populisti?

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Solo tre generazioni fa, quella dei nostri nonni, i livelli di istruzione e scolarizzazione erano molto molto più bassi. Senza contare i dati sull'accesso ai teatri, ai cinema, ai libri, la diffusione delle biblioteche domestiche o pubbliche. Ma la cultura non è certo solo istruzione. E men che meno erudizione.
La grande differenza, a mio parere, tra quella generazione e la nostra, era la consapevolezza dei propri strumenti, e quindi dei propri limiti. E della fatica necessaria per superarli. Una distanza, uno iato, un baratro la cui consapevolezza non significa necessariamente fermasi, anzi, ma trovare le risorse, fuori e dentro di sé, per andare oltre.
Mi pare che questo sia il punto, e che oggi, insieme a dati per niente rassicuranti sui consumi culturali e sui livelli di scolarizzazione, sorprende, o almeno dovrebbe sorprendere, l'abbondanza di tuttologi che di volta in volta si manifestano, offrendo al mondo, con il contributo decisivo della piazza virtuale, le proprie sentenze sulle questioni internazionali, sui grandi temi della vita e della morte, sulle politiche di sicurezza e legalità. Pare che sia saltato proprio il senso del limite che secondo molti autori è forse il dono più importante che la cultura ci consegna.
Viene alla mente quel passaggio in cui Antonio Gramsci spiega con efficacia e semplicità che se chiedessimo a chiunque di tradurre un brano dal cinese ci prenderebbe per pazzi o addirittura si sentirebbe preso in giro, ma che la stessa persona non avrebbe problemi ad argomentare su temi di cui non ha alcuna nozione in più rispetto alle lingue asiatiche.
Io credo che qui vi sia uno snodo non solo tra una cultura politica progressista e una conservatrice, ma anche tra una cultura popolare ed una elitaria, e, cosa forse più importante, tra una cultura politica popolare ed una populista.
Il conservatore infatti argomenterà che bisogna prendere atto di quella distanza che è un dato strutturale, l'elitario che per questo il popolo deve essere guidato da chi ha gli strumenti per farlo. Cercando così entrambi di fermare i più sull'orlo di quel baratro, ma anche di fatto di lasciarceli.
Il populista, cosa che e avviene ogni giorno, negherà che esita il baratro, incoraggerà ognuno a compiere il salto lasciandolo precipitare rovinosamente.
Compito di una cultura politica popolare e progressista è invece quello di sviluppare la consapevolezza dello iato, della portata del salto, degli strumenti necessari per compierlo, incoraggiando tutti e ciascuno e provando a dare ad ognuno gli strumenti di cui ha bisogno. Si tratta di un compito gravoso di consapevolezza ed emancipazione. Che passa per l'istruzione e per la diffusione della cultura.
E proprio la sfida tra popolari e populisti mi sembra quella che oggi interessa l'Italia, l'Europa, il mondo intero. Non è che dove c'è un agglomerato persone, un sentire diffuso allora là ci sia il popolo. E soprattutto stare con il popolo non significa inseguire qualunque sentimento, anche il più retrivo.
La differenza tra popolari e populisti sta proprio tra chi liscia il pelo al popolo, e chi sta con il popolo, per il popolo e al servizio del popolo a svolgere una funzione utile, che non si limiti a quella del megafono, ma ad individuare soluzioni, ad aprire percorsi, a tracciare sentieri magari fino a quel momento non percorsi. Si tratta, a mio parere, della missione fondamentale di un grande partito popolare e progressista per costruire una democrazia autentica nel tempo della modernità.

Pluralismo dell'informazione, una condizione essenziale per la democrazia.

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La materia del pluralismo dell'informazione è un tema cruciale, un tratto fondamentale della base di una democrazia, che deve essere caro a chi crede nel senso genuino della politica.
Senza pluralismo non c’è informazione (al massimo resta la propaganda); senza informazione non c’è conoscenza. E senza conoscenza la democrazia non esiste.

La Politica ha dunque il compito di affrontare tematiche così impegnative e provare a tradurle nella concretezza di provvedimenti. Le leggi – certo – hanno spesso un ambito circoscritto, legato al tempo, alla contingenza, alle disponibilità delle risorse. Tutto ciò non esime la Politica dal dovere del tentativo di dare risposte a quesiti di respiro ampio, nel tempo e nell’impatto.

Il problema del sostegno al pluralismo nell’editoria è all’attenzione del Parlamento italiano sin dagli anni Ottanta. Successivamente, negli anni Duemila abbiamo assistito a processi di revisione significativi e, nel 2010, si è avuto un ripensamento del sistema di contribuzione all'editoria che sempre di più verte sul sostegno alle piccole testate locali indipendenti.

Nel 2010, il Parlamento ha tentato – ma senza successo anche per il sopravvenire della fine della XVI legislatura – quello che invece pare riuscire a noi oggi: un provvedimento di legge complessivo di delega e di riordino che dia uniformità al settore (che – per dare un’idea del mutamento intervenuto – dal 2006 al 2016 ha visto passare le risorse pubbliche destinate al settore da 420 milioni a 30). Per non ripetere quell'esperienza incompiuta, la Commissione Cultura si è data un tempo importante di ascolto – all’esterno - del mondo degli operatori - con audizioni significative - e poi, all’interno, di ascolto delle diverse forze politiche. Ora è arrivato il tempo della decisione, della scelta e dell'assunzione di responsabilità.

Noi sappiamo che questo settore oggi rischia, ogni giorno che passa, di vedere una testata che muore. Parliamo di piccole testate locali; parliamo dell'ossatura della democrazia del Paese, parliamo di chi compie ogni giorno atti d'inchiesta e di indagine e magari svela realtà drammatiche che riguardano il sistema della criminalità organizzata, oppure la violenza verso i più deboli, o verso l’ambiente.

Che cosa prevede questo provvedimento? Innanzitutto una ridefinizione della platea che può accedere ai contributi pubblici secondo due linee di fondo: una maggior trasparenza e una maggiore individuazione dei destinatari della piccola editoria, utilizzando in particolare il criterio del no profit e delle cooperative di giornalisti, quindi di editori che sono giornalisti essi stessi come soggetto chiave di questo provvedimento. Si punta quindi alla piccola editoria, escludendo in maniera molto secca e molto chiara, sia i fogli di partito, sia le società quotate in borsa o società per azioni. Si interviene di conseguenza anche rispetto a quelli che sono stati degli scandali del passato che hanno fatto male a questo settore. Quelle malversazioni del passato sono state combattute e oggi portare a sistema un progetto come questo significa fare tesoro di quelle vicende e garantire la chiarezza e la trasparenza, per aiutare davvero questo settore e sostenere chi ogni giorno vi opera con serietà e passione.

Dall'altro lato, si lavora per garantire che al contributo pubblico corrisponda una capacità economica, una capacità imprenditoriale, una reale esistenza sul territorio e tra i lettori. Quindi si misurano le copie vendute, si misura la capacità di raccogliere fondi diretti da parte di queste realtà e si accompagna tutto questo settore, che in parte ha già intrapreso ovviamente questo cammino, verso l'era del digitale; si tratta di un'era che non è iniziata oggi, ma che è ampiamente iniziata da tempo e che in questo settore comporta una trasformazione che è cruciale. Infatti, è chiaro che oggi se noi guardiamo alla realtà dell'informazione, dei giornali, vediamo che ormai gran parte dell'informazione vive anche o solamente in rete, nell’online. C’è un grande tema di che cos’è l'informazione online e di come aiutare l'informazione online ad essere forte, ad essere fondata, ad avere riferimento alle fonti. Quindi, l'idea di portare tutte queste testate, in maniera vincolante per poter accedere al contributo pubblico, ad essere anche testate online, ad essere anche digitali e accompagnarle nei costi di ripensamento che questo comporta, è uno degli elementi cruciali della proposta di legge.

In questo contesto, il mercato – vale a dire la sostenibilità di un’offerta che incontri una vera domanda di lettura dei giornali – non viene inteso come rimedio ai mali del passato o come unica misura dei valori sociali, ma nemmeno come il grande nemico da combattere. Restiamo ancorati all’idea che se il mercato genera storture e carenze, è giusto che il pubblico intervenga.
Questa legge nasce proprio da questa logica: esistono realtà del Paese in cui da sola una cooperativa di giornalisti, una realtà imprenditoriale, una realtà no profit, non ce la fa. C'è quindi il rischio che in quella realtà del Paese scompaia una voce o ne resti una sola: per questo ha senso un intervento secondo criteri molto ben definiti da parte del pubblico, per tenere viva quella voce o accesa la pluralità delle voci. L'intervento poi si sposta a tutto il resto della filiera del settore e pertanto riguarda anche la rete di distribuzione: i distributori, le edicole, i punti vendita. Infatti, se noi lavoriamo per tenere vive delle testate, per fare in modo che esistano, se noi lavoriamo perché ci siano dei giornalisti – magari ed in particolare dei giovani giornalisti – che scrivano dei pezzi, dobbiamo poi fare in modo che quello che loro scrivono effettivamente qualcuno lo pubblichi, lo stampi, qualcuno lo porti in un'edicola e qualcuno lo venda. C’è un processo articolato di intervento in questo settore a cui abbiamo prestato particolare attenzione, pensando a degli interventi che accompagnino le trasformazioni in corso e mitighino gli effetti negativi di queste trasformazioni.
C’è poi un intervento importante che riguarda il settore dei giornalisti in maniera più complessiva. In particolare, si tratta di una revisione Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti secondo un principio di razionalizzazione delle competenze e anche del numero dei componenti, non tanto per una battaglia di principio relativamente ai costi che certi numeri comportano, che pur non sono irrilevanti, ma perché si possa far crescere l'autorevolezza, il rilievo e l’efficacia di quel luogo in una logica di accompagnamento del cambiamento, di guida del cambiamento, nel senso di avere la capacità di affrontare i tempi in cui viviamo con strumenti che siano adeguati a quei tempi.

Si interviene anche sul tema dei prepensionamenti di questo settore con un criterio di razionalità, che dice che laddove c’è bisogno di un intervento pubblico e, quindi, di risorse che sono di tutti, ci deve essere poi, però, un rigore, ci deve essere un accompagnamento verso una condizione più simile a quella di tutti i lavoratori, ci deve essere la certezza che se qualcuno è stato accompagnato fuori dal mondo del lavoro ed è andato in prepensionamento non ritorni poi, qualche giorno dopo, a lavorare per lo stesso giornale in altra forma. Questo sarebbe iniquo e sbagliato.

La legge approvata dalla Camera è arrivata in Aula dopo un lavoro approfondito di mesi della Commissione Cultura e di tutti i gruppi parlamentari negli ultimi mesi, in un clima molto positivo che ha permesso a tutte le forze politiche, ovviamente ognuna partendo da impostazioni anche molto differenti, di dare il proprio contributo a questa proposta di legge, raccogliendo da più parti un sentire comune. Sarebbe preoccupante, del resto, se così non fosse nei confronti del pluralismo dell’informazione, anche se ognuno naturalmente individua poi, almeno in parte, modi di intervento differenti.

C’è il tema delle deleghe contenute in questa proposta di legge. In questo settore le deleghe al Governo hanno una funzione particolare per un motivo molto semplice: perché si tratta di dare alla norma quel valore universale che merita e, però, permetterle di misurarsi con la concretezza delle situazioni che, via via, si trasformano. Pertanto, se noi possiamo definire molto bene i principi a cui vogliamo arrivare, via via che questi principi ricadono nella realtà e nella quotidianità, ci sono anche delle trasformazioni nel settore che devono permettere, con i decreti attuativi che possono cambiare di anno in anno di poter via via introdurre dei correttivi se necessari. Ogni volta che cambiano i decreti attuativi, la legge prevede un passaggio nelle Commissioni parlamentari. Il Parlamento quindi dà un indirizzo puntuale; il decreto attuativo prova a concretizzare quell'indirizzo; se il risultato, se l'esito di questa concretizzazione non corrisponde all'indirizzo, c’è lo spazio e c’è la possibilità di intervenire e di correggere il decreto attuativo. Una modalità di legiferare che lega universale e particolare e dà alla norma la capacità di adattarsi, essere flessibile, accompagnare i cambiamenti in atto. Ma, proprio perché questa è la logica, si è cercato, nel lavoro di Commissione, di rafforzare il dettaglio.

Abbiamo infine raccolto le osservazioni delle diverse Commissioni, altri accoglimenti li faremo nel lavoro d’Aula. In particolare abbiamo rafforzato l'attenzione verso i lavoratori di questo settore e le norme che garantiscano che chiunque voglia accedere a un contributo pubblico debba, in maniera rigorosa e chiara, non solo formalmente, ma sostanzialmente rispondere a tutti gli obblighi contrattuali che ha nei confronti dei propri lavoratori, abbiamo rafforzato il tema della trasparenza di tutti i proventi economici delle diverse testate, le norme sulla rete della distribuzione.

Sono stati accorpati due differenti testi; si è fatto un lavoro forte di unione dei due testi; in Commissione sono stati recepiti molti emendamenti; oggi ne sono stati presentati altri; anche a questi emendamenti guarderemo con attenzione al merito e vedremo di recepirne il numero maggiore possibile.

Ci sono in questa materia molte questioni condivise, altre che dividono. Solo non raccontiamo cose che non esistono. Non esistono amici o nemici, del Governo o di questa o quella forza politica da sostenere o combattere ma la necessità di intervenire in un settore cruciale per il Paese e farlo con il rigore massimo possibile, perché, quando si parla di contribuzione pubblica e quando si parla di risorse di tutti, bisogna essere sempre davvero rigorosi e trasparenti.

Dobbiamo provare a dare risposta con queste norme ad una domanda che ci siamo fatti in tutti questi mesi: l’informazione è un prodotto come molti altri? Per cui, laddove c’è mercato, bene, laddove non c’è mercato, fa nulla, ci sarà un prodotto in meno da vendere? Noi diciamo che non è così. Questo è un settore che vede insieme un prodotto e un servizio. E si tratta di un servizio essenziale, cruciale e primario. Il diritto alla conoscenza è un diritto primario dell'uomo, è un diritto fondamentale che distingue una democrazia. Qualcuno ha chiesto: voi pensate, con questa legge, di migliorare la condizione dell’informazione in Italia, così come viene rilevata dagli studi e dalle statistiche? Noi abbiamo anche questa ambizione. Magari la miglioreremo solo di poco, però noi abbiamo l'ambizione di procedere passo dopo passo e di procedere, però, passo dopo passo nella giusta direzione.

CULTURA E DEMOCRAZIA, CULTURA È DEMOCRAZIA

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L'inversione di tendenza è iniziata. Come renderla strutturale?


Certificato, numeri alla mano, che un’inversione di tendenza netta sulle risorse destinate dallo Stato alla Cultura c'è stato e che ci sono più risorse, la prima domanda da farsi è: era facile che succedesse?
Era facile perché era incredibile il taglio che c’era stato prima, quindi rispetto alla situazione precedente invertire la tendenza e aggiungere risorse era matematicamente facile.
Ma era difficile perché le risorse sono state tagliate in un momento di crescita di bilancio, adesso vengono aggiunte in un momento di tagli.
Siamo quindi di fronte a una scelta politica chiara.
C’è un’inversione di tendenza, ci sono più risorse, ma non sono ancora stabilizzate.
Non è una situazione specifica che riguarda questo settore e dietro questo non c’è una volontà politica, ma è sicuramente uno dei temi su cui bisogna intervenire.
L’alleanza che dobbiamo realizzare noi oggi è che l'occasione legislativa di un testo unico per lo spettacolo dal vivo diventi occasione di un dibattito politico, un dibattito dove i cittadini - e i cittadini interessati in particolare - si riappropriano della titolarità rispetto alla discussione sul ruolo della cultura. Perché questo è il nodo: la cultura è ancora troppo marginale nel dibattito pubblico di questo Paese. E’ marginale in termini assoluti ed è marginale rispetto alla rilevanza che a mio parere dovrebbe avere. La cultura è il punto di partenza di una democrazia perché non esiste una democrazia senza cultura. La democrazia è l’utopia che ogni cittadino possa scegliere i suoi rappresentanti. Se uno non ha gli strumenti culturali, non li può scegliere i suoi rappresentanti. E quindi il motivo vero per cui si fa cultura, prima di tutto il resto, non è per stare bene, per intrattenersi, per passare del tempo bello, per fare delle cose interessanti, il motivo vero fondamentale e originale è la democrazia. Il teatro in Grecia era uno strumento di democrazia e la democrazia nasce lì nello stesso luogo dove nasce il teatro. Nell’ordine dei fattori, la cultura è troppo poco rilevante rispetto a quello che dovrebbe essere nel dibattito pubblico, dentro la cultura lo spettacolo dal vivo è troppo poco rilevante e c’è in Italia un peso eccessivo di attenzione anche economica su tutto quello che è il patrimonio. Dentro le attività culturali, lo spettacolo dal vivo è meno rilevante di altri, e dentro lo spettacolo dal vivo il teatro arriva per ultimo. Perché quando uno parla di spettacolo dal vivo e ne parla come ha fatto ad esempio, con grande merito, il Comune di Milano con lo sportello unico, che è un passo avanti fondamentale rispetto ad alcuni degli obiettivi che c’eravamo dati, ha in mente la musica e i concerti, non ha in mente il teatro.
Il teatro non ce l’ha quasi mai in mente nessuno.
Mi piacerebbe poi discutere del valore della discrezionalità nella cultura. Perché questo è un tempo in cui ci siamo tutti innamorati troppo dell’oggettività, ma l’oggettività ha tanti difetti in generale e nella cultura ne ha tantissimi. Io credo che se ci fosse qui Paolo Grassi e gli dicessimo che dobbiamo misurare tutto con dei criteri oggettivi, ce le direbbe dietro perché nella cultura ci vuole anche una componente forte di discrezionalità e di responsabilità rispetto alle scelte discrezionali. Per cui se quando ho fatto l’assessore alle politiche culturali ho fatto delle cose sbagliate, i miei cittadini lo devono sapere, devono giudicarmi e devono cacciarmi via. Ma io devo essere responsabile. Non posso dire: ho fatto l’assessore, abbiamo finanziato alcune cose ma non l’ho deciso io, l’hanno deciso i tecnici o i parametri. E in questo senso il valore della politica per la cultura è fondamentale. Perché i tecnici bravi e competenti in questo settore ci vogliono, ma devono fare i tecnici, che è una cosa fondamentale che arriva subito dopo. Ma c’è un punto di responsabilità che o se lo prende la politica mettendoci la faccia e dicendo "per me questo è importante e questo no", oppure non si risolve il problema.
In un momento di straordinaria sfiducia nella politica - comprensibile, motivata e con mille ragioni e con mille responsabilità della politica - se crediamo tutti che la cultura sia prioritaria, dobbiamo creare le condizioni perché abbia il peso che le spetta nel dibattito politico.
Vanno rimessi in ordine i fattori per cui è importante la cultura. Il secondo è quello economico, perché è vero che gli investimenti culturali sono fondamentali per una crescita anche economica per far ripartire il Paese anche sul piano economico e perché la cultura non è nemica dell’economia ma anzi ne è amica.
Ma non è questo il motivo principale, il principale è di natura civile: l’investimento culturale è qualcosa che interviene nelle menti è ha una serie di ricadute positive su tutto il resto. Se io devo dire qual è la priorità delle politiche sociali, io dico che è la cultura. Perché se ho delle persone che hanno strumenti culturali capiscono l’importanza di occuparsi di chi ha più bisogno. Altrimenti ho un approccio alle politiche sociali di natura tecnicista. Se devo dire qual è la priorità delle politiche ambientali, dico che è la cultura perché la comprensione del valore di quello che ci circonda viene data dagli elementi culturali. Lo stesso vale per le politiche dell'innovazione. In questo senso è necessario cambiare la tendenza prioritaria del Paese. Cioè fare in modo che la percezione diffusa sia quella di mettere più risorse sulla cultura. Cioè dobbiamo lavorare, giustamente, sui rappresentanti, ma noi dobbiamo rappresentare i rappresentati quindi è su di loro che dobbiamo lavorare.
Io penso che a teatro di debbano andare tutti e che noi ci dobbiamo porre il problema di come fare perché ci vadano tutti.
Dobbiamo invertire il meccanismo altrimenti avremo delle persone generose, appassionate, illuminate, che difendono un principio, che sostengono la cultura per loro convinzione, ma non ci baseremo su quello che deve essere veramente una democrazia e cioè che le scelte hanno dietro la forza e la convinzione almeno della parte maggioritaria delle persone.

Sei libri, sei film, sei canzoni, sei scelte per conoscerci meglio.

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    Verità e metodo
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    Il piccolo principe
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    Il nome della rosa
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    Il gioco degli specchi
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    L'attimo fuggente
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    2001 odissea nello spazio
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    Il mio nome è nessuno
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